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Racconti dal carcere

In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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Demoni e Angeli... in carcere
di Fabrizio Forcina

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Ero terrorizzato da quello che avevo sentito dire sulla vita dietro le sbarre: vessazioni, stupri e altro... Oggi sono perfettamente in grado di raccontare – non per sentito dire ma per ciò che ho vissuto in prima persona – quello che accade nell’ottanta per cento delle carceri italiane. La mia esperienza in merito si limita a Regina Coeli e Rebibbia, ma ho incontrato detenuti provenienti da tutti gli istituti di pena italiani…
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Fui assegnato a una cella del 7° reparto, quello adibito ai nuovi arrivati. (…) Una forte spinta mi catapultò in un corto rettangolo con a destra un letto a castello di metallo, sopra la mia testa un televisore quattordici pollici acceso su un canale musicale, in fondo un lavabo e di poco a sinistra un water “alla turca”; un boato alle mie spalle mi avvertì che la guardia aveva chiuso le sbarre. Stavo lì in piedi come un salame, poi qualcosa attirò la mia attenzione... La branda di sotto era occupata e, forse per il trambusto, qualcuno si era svegliato. (…) Si erse davanti a me un uomo sui cinquant’anni, con baffi bianchi e barbetta incolta, il corpo pieno di tatuaggi, di cui uno sul petto che ritraeva la testa di una donna con il copricapo delle SS. Mi scrutò per quella che a me parve un’eternità, poi sorrise con gli unici cinque denti rimastigli e mi porse la mano. «Arthur» disse, «Fabrizio» risposi.
(…)
Mi toccò la cella numero ventisei al primo piano. Era in tutto simile alla cella del 7° che avevo appena lasciato, solo che era leggermente più grande; di contro, le brande erano tre, quindi lo spazio vitale si riduceva. Mi accolsero due ragazzi romani miei coetanei, Andrea e Stefano; di uno di loro ricordo anche il cognome perché fu la persona che con pochi ma efficaci “consigli” mi permise di rimanere vivo per i quattro mesi che dovevo ancora scontare.
(…)
Un giorno, durante l’ora d’aria, scherzando dissi a una persona: «Ma che cazzo stai a di’?», riferendomi a un banale discorso. Quando riaprii gli occhi vedevo le nuvole e la bocca era inondata dal gusto caldo e metallico del sangue. Mi alzai e fui subito di nuovo affrontato dal “pugile” che grugnì: «Quando parli con me, parla senza “cazzo”».
(…)
Ci eravamo accordati per dare una lezione a quei quattro nell’”aria” del pomeriggio. Ma io, da novizio, credevo che fossero solo parole destinate a trasformarsi in una semplice discussione verbale. Mai mi ero sbagliato tanto in vita mia. Anche Stefano mi avvisò che si faceva sul serio, ma risposi che sarei sceso anche io senza dubbio. Vedevo gente che rompeva lamette da barba e le saldava a fuoco nei manici degli spazzolini, altri mettevano il fondo della macchinetta del caffè in un calzino facendone una fionda mortale, altri ancora usavano i coperchi delle scatole di pomodori pelati che tagliano più dei rasoi...

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