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Racconti dal carcere

In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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I sentieri del tempo
di Sebastiano Prino

Per Elias la vita a Seuna, il paesino dove era nato, non fu meno dura di quella di campagna.
In un primo momento venne impiegato per poche lire al giorno presso una latteria: distribuiva bottiglie di latte a domicilio per tutto il rione, compresa la canonica di don Cubeddci dove, per volere paterno, non aveva mai messo piede, sviluppando una forte repulsione per i dogmi religiosi.
La sorella del prete, che svolgeva anche le funzioni di perpetua, ogni volta che Elias si presentava davanti alla sua porta non mancava mai di dirgli una parola gentile. Poi però, con fare indifferente, si chinava ad aggiustargli le braghe perennemente in bilico sui fianchi esili, indugiando con le dita sui genitali, che nei primi giorni si erano contratti per poi man mano esibirsi nel loro turgore.
Le visite di Elias alla canonica si fecero frequenti, fino a che il ragazzo cominciò a girare indisturbato tra le stanze della casa. La donna cominciò a ricompensarlo per gli scampoli di tempo che lui le dedicava dandogli qualche soldo, che aveva il duplice scopo di ingraziarselo ancor più e di cucirgli la bocca.
(…)
L’adolescenza continuò a scorrere per Elias vedendolo impegnato in mille lavoretti, ai quali si aggiungevano altrettanti piccoli furti. Riuscì per un po’ a evitare i rigori della legge, ma non la nomea di ladro, che si accresceva a ogni ruberia perpetrata nelle case o nelle campagne del paese, innescando così quel circolo vizioso che in Barbagia viene descritto con il detto: “neche o non neche né praughet berbeche”. Fedele al cliché che gli era stato cucito addosso sull’immutabilità del suo destino, Elias continuò le sue malefatte, sordo a ogni richiamo e con un solo obiettivo nella mente: diventare ricco.
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La proposta di partecipare a un sequestro di persona gli giunse improvvisa ma non inaspettata da parte di individui che non appartenevano alla sua cerchia.
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L’auto del possidente agrario si materializzò avanzando con lentezza poco prima dell’imbrunire. L’uomo alla guida, dal viso rubicondo su cui erano inforcati spessi occhiali da presbite, pareva volersi consegnare volontariamente nelle loro mani.
D’un balzo gli furono addosso con le armi spianate.
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L’alba, attesa con impazienza, lo trovò intento a cercare di capire dove si trovava, dopo aver camminato, e a tratti corso, per tutta la notte, nell’infantile convinzione che la distanza posta tra sé e il luogo della sparatoria lo avrebbe separato per sempre dai fatti della sera prima.
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Mentre lasciava il colle in cui si trovava per incamminarsi verso le pendici di quel massiccio granitico, intravide sul versante opposto un gruppo di persone che, con una goffa andatura, si dirigeva verso di lui. Si rannicchiò in un anfratto ai margini del sentiero e aspettò il passaggio di quella strana comitiva: dei fedeli a piedi scalzi, probabilmente per sciogliere un voto, sfilarono davanti a lui.
(…)
L’aula della corte d’assise di Gonuro, sita a ridosso del muro di cinta del carcere in cui da alcuni mesi era recluso, gli apparve quasi bella nella sua austerità.
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Una locuzione in latino, incisa da qualcuno passato da quelle parti prima di lui sulla parete della gabbia dove era stato rinchiuso, gli strappò un sorriso: «Omnia munda mundis». Tutto è puro per chi è puro. Chissà se quella frase era stata scritta prima o dopo la sentenza.

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