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Racconti dal carcere

In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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La teoria della distruttività
di Angelo Rubiu

1° classificato
per la descrizione più suggestiva della vita in carcere

(…)
Pensando a mio padre, la prima cosa che mi viene in mente è la sua bicicletta, le sue bestemmie e le maledizioni e le imprecazioni che scandiva ogni volta che si rompeva. La sua vita, il lavoro e l’esistenza stessa della sua famiglia erano legati al funzionamento di quella bicicletta.
(…)
Lavorava in una miniera della Carbonsarda, scendeva a migliaia di metri di profondità e scavava a mano chilometri di gallerie, armato con puntelli e travi di legno. Usciva prima di giorno e rientrava la sera tardi, distrutto dalla stanchezza e annerito dalla polvere di carbone. Non esistevano le docce e, quando rientrava a casa, mia madre l’aspettava con la sedia di giunco e con la catinella dell’acqua calda. Lo faceva sedere, gli toglieva le scarpe, le calze nere e gli lavava con dolcezza i piedi e le gambe.
(…)
Eravamo cinque fratelli e due sorelle e nessuno andava d’accordo con l’altro, trovavamo sempre qualche motivo per litigare. Un giorno, mentre mia madre preparava il pane, io e mio fratello, che dormivamo sullo stesso letto, litigammo e io gli sferrai un calcio nel basso ventre e lo feci finire a terra dolorante. Scappai per non essere preso da mia madre, che afferrò il primo oggetto che le capitò e me lo lanciò dietro. Caddi per terra svenuto, quel coltello mi si era ficcato proprio all’altezza della milza e ancora ne porto il segno.
(…)
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate”: queste erano le parole che Dante vide scritte sulla porta dell’inferno. Queste erano le parole che io pensai e immaginai scritte nel famigerato portone del manicomio di Aversa, quando lo varcai la prima volta.
Mi mandarono lì per osservazione, dopo essere stato legato per quaranta giorni a uno dei letti di forza del carcere di Alghero, e poi mi spedirono a Sassari, dove fui nuovamente legato per una settimana, e da lì mi misero la camicia di forza e mi spedirono al manicomio di Aversa. Come varcai il portone, mi portarono in Matricola e, sbrigate le solite formalità, mi consegnarono a due energumeni totalmente pazzi che mi aspettavano con delle cinghie di canapa. Mi presero, mi tolsero la camicia di forza e mi denudarono completamente, mi cucirono con dello spago le lunghe cinghie ai polsi. Mi trascinarono per le cinghie e mi portarono nudo per ottocento metri fino al camerone dove c’erano già una trentina di internati legati a quei terribili letti. Delle grandissime culle in ferro con un pesante materasso di crine bucato al centro per evacuare e fare tutti i bisogni. In questo letto venivi poi fissato con altre quattro cinghie, due alle caviglie, per farti giacere con le gambe aperte, una all’altezza del petto, e un’altra, la famosa “fiorentina” che ti passava sotto la gola per girare attorno alle ascelle. Tutte le cinghie terminavano alle sbarre intorno al letto. Questa era sicuramente la prova più dura, dovevi riuscire a mantenere la massima calma, non strillare, non lamentarti per le mosche che, soprattutto d’estate, ti divoravano, mangiare quello che i due energumeni ti imboccavano. Anche la più piccola reazione, oltre alle botte, poteva scatenare subito l’intervento coatto degli infermieri e delle loro siringhe con psicofarmaci a base di Serenase, Haldol e altri intrugli. Al mattino uno degli energumeni ti puliva il sedere con una scopettina di saggina e svuotava il secchio sotto al buco del materasso. Dopo una settimana mi slegarono, mi misero una fascetta con i braccialetti ai polsi per accompagnarmi dal famoso direttore Ragozzino. Suicidatosi, poi, nel carcere di Secondigliano dove era stato rinchiuso per la morte di una decina di suoi ricoverati. Dopo aver atteso per una decina di minuti di fronte al suo ufficio e con le spalle alla sua scrivania, mi chiamò per cognome, mi fece girare di faccia e mi domandò subito il motivo per cui ero finito nel suo istituto.

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