SIAMO NOI, SIAMO IN TANTI
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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I pensieri dell’anima
di Alfonso Villella

Questa stanza è un vero porcile, dopo quasi tre anni trascorsi al Tamigi più o meno bene, si presenta l’ispettore di reparto dandoci la “bella notizia”: “Siete stati ‘declassificati’”. Cosa vorrà dire, mi domandavo. “Significa che da questo momento non fate più parte del reparto ‘associato’ e dobbiamo trasferirvi al reparto Tevere, dove ci sono detenuti con reati comuni”.
Ci assegnarono una stanza composta da otto detenuti. L’impatto fu terribile.
Non era proprio una stanza, sembrava più una stalla. C’era sporcizia dappertutto, i materassi consumati e pieni di polvere, le mura sporche di grasso e sangue di zanzare schiacciate, armadietti rotti. Non avevamo dove sistemare le nostre cose. Per un po’ di tempo dovemmo arrangiarci.
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Sono passati i giorni, i mesi e il susseguirsi di cambiamenti di stanze e, di conseguenza, di convivenza con i nuovi compagni.
Il detenuto è un soggetto molto particolare, suscettibile e permaloso. Ma nei momenti di sofferenza sa anche tirare fuori il meglio di sé. Per questo mi sono sempre saputo adattare alle usanze comportamentali di queste anime sbagliate.
Nel 2007, mi trovavo al reparto Tamigi, un reparto degli “associati”, dove le richieste di condanna partivano da dieci anni a non finire mai (ergastolo).
Il mio processo faceva quasi ridere, in fondo erano stati chiesti solo 18 anni e dovevo affrontare ancora il primo grado di giudizio.
Diciotto anni passano, ma un ergastolo quando ti passa?!
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I vecchi carcerati, intesi come i veri carcerati, il mattino alle sette sono già in piedi, a differenza di quelli che di galera ne conoscono solo la “facciata’”. Apro una parentesi. Diciamo che ci sono quattro categorie di carcerati: c’è l’ergastolano (fine pena mai), il vecchio carcerato (quello con molti anni sulle spalle, quello che ne conosce le regole e le usanze per esperienza e insegnamenti ricevuti), poi ci sono quelli dei cosiddetti reati comuni (coloro che entrano e escono per pochi mesi, o qualche anno al massimo, per reati “sciocchi”, tipo un furto di stereo e cose di questo tipo).
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Di Pasquale ricordo tanti momenti trascorsi a chiacchierare e a passeggiare nelle due ore di aria, ma una frase sua non la dimenticherò mai: “Alfonso, ci vorrebbero due vite, una per fare esperienza e l’altra per viverla”. Pasquale aveva sedici anni quando ha commesso il suo primo reato, troppo giovane per comprendere le conseguenze. Farsi del male a quell’età è facile, se non ci si ferma in tempo è la fine. E la fine di questa storia è terribilmente triste.
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Il passeggio nel carcere è come una festa, dura due ore. Tutti si salutano con abbracci e baci e poi si va avanti e indietro a gruppi, oppure si gira intorno al muro che ci circonda e che col passare del tempo sembra diventare sempre più alto. I tanti bla, bla, bla… ti rimbombano nella testa. A volte mi soffermo dalla finestra della mia stanza a guardare quelle braccia e quelle mani gesticolare. Quante storie di vita, o di malavita, che s’intrecciano tra loro… Ognuno si esprime dando sfogo alle proprie “ragioni”, ma spesso, troppo spesso, alla propria follia.
Quante volte capita di lasciarci trasportare dai ricordi, di pensare al mondo che avremmo voluto che fosse…

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