SIAMO NOI, SIAMO IN TANTI
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera
In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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Introduzione alla devianza di un cane
di Salvatore Torre
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Il mio cane, un bastardino tutto nero, dimorava abitualmente sulla strada, davanti a casa. Dico abitualmente, perché
non di rado spariva per un’intera settimana. Ma non è questo che lo faceva strano. Destava meraviglia, invece, il
fatto che lasciasse transitare per quella via chiunque, a qualsiasi ora del giorno e della notte, eccetto, guarda
caso, carabinieri e affini.
Sul serio! E a nulla valeva che fossero in divisa oppure no: li fiutava appena sopraggiungevano sulla piazzola del
paese, che dalla casa distava non meno di trecento metri.
Così docile e caro, si trasformava in una belva giusto quando uno di quei signori aveva l’aria di recarsi alla nostra
dimora. Tanto ringhiava e mostrava i denti, che una volta minacciarono con la pistola perfino di ammazzarmelo.
Questo meditavo in attesa di dare quegli esami e mi chiedevo nuovamente quale salvezza avrei mai potuto avere, se
quel mondo subdolo e perfido aveva persino suggestionato la ragione di un cane!
Si potrebbe ora discutere delle capacità di quell’animale di far sue le emozioni di quanti aveva in affetto, ma anche
laddove ne concordassimo il senso, resterebbe il fatto che finanche lui, il cane, si era di fatto conformato alle
leggi di quella scellerata società.
Quale salvezza, dunque? Nessuna.
Magari qualcuno mi avesse fatto stirare il collo dall’altra parte di quel mio mondo... giusto per mostrarmi che di là
c’era di meglio, avrebbe forse insinuato in me la curiosità e, chissà, anche il richiamo che mi transitasse verso un
altro destino!
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Avevo trentasei anni, ma già i capelli e il pizzetto mostravano qualche filo grigio. Non ero sposato e non sapevo se
un giorno mi si sarebbe data la possibilità di farlo. Disperavo, in verità.
Del resto, donne non potevo frequentarne tante, e quelle poche, anzi pochissime, che avevo modo di conoscere, non mi
ritenevano per nulla affidabile. Mi guardavano di traverso, mi scrutavano, cercavano forse di capire chi fossi in
realtà. Non che dessi loro modo di equivocare sulla mia personalità... ero un ergastolano, dopotutto.
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Ci vedevamo una o due volte al mese e non facevamo che parlare e parlare... in verità, ce ne stavamo là, seduti l’uno
di rimpetto all’altro, pensando di voler fare tutt’altro.
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Dalle nostre parti c’era un detto: “O ammazzi o ti fai ammazzare”, e io facevo il possibile affinché la seconda
ipotesi non accadesse. Tanto ero accorto, che non mi si vedeva mai passeggiare per la piazza, mettere piede in un bar,
né giammai entrare dal barbiere. Il rischio era appunto quello di prendere una fucilata in faccia.
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A vent’anni, per mia fortuna, non ero finito ammazzato, ma dritto dritto in galera. E io con dignità e onore la
sopportavo. Non per nulla avevo per idolo Peppinu u Malpassotu.
Che minchione!
Chi, il Malpassotu?
No, io. Perché lui, di farsi la galera non ci aveva pensato manco un istante
……………………………… ne era passata sotto i ponti dacché il Malpassotu si era pentito, tanta che avevo trascorso altri tredici
anni di carcere.
Io, disgraziato per natura, non mi pentivo... ditemi fesso, ma quello decidevo.