SIAMO NOI, SIAMO IN TANTI
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera
In rosso sono segnalati i vincitori del premio letterario goliarda sapienza “racconti dal carcere”
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Un destino segnato
di Salvatore Francesco Pezzino
….. Alle ore 4:00 circa vengo prelevato dalla sezione di semilibertà da agenti del corpo di Polizia Penitenziaria,
carabinieri della stazione di San Gimignano, carabinieri del R.O.S e D.D.A. di Palermo.
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Dopo la perquisizione di rito vengo accompagnato all’interno del carcere, in una stanza utilizzata per gli
interrogatori. Trascrivono tutto, analizzano le mie carte, le agende, guardano nel portafogli, fotocopiano e
sequestrano.
Io sono fermo, seduto davanti alla scrivania, osservo, ascolto. Vedo un fascicolo enorme. Avrò poi modo di constatare
che si trattava del mio avviso cautelativo per associazione mafiosa. 540 pagine.
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Entro in cella, è vuota, attorno a me il nulla: un water, un lavabo e una branda sudicia. Un bravo galeotto sa che
quelle sono le prime cose essenziali per sopravvivere, e io ormai sono un veterano. Ma non ho tempo di curarmi di
questo, mi aggrappo alle sbarre, guardo giù, le gabbie di cemento che sono per l’ora d’aria degli isolati, ognuna
a grandezza di singolo detenuto, giusto una “scatola”, poi uno scorcio di campo sportivo, il muro di cinta e il cielo
infinito.
È quasi l’ora che avrei dovuto essere a casa prima di recarmi a lavoro, ma questa mattina, al posto mio, sono arrivati
i carabinieri per la perquisizione. Penso a mio figlio Francesco, se l’avranno svegliato, se ha avuto paura… ci sono
stato così poco con lui, troppo poco per aver instaurato un rapporto profondo da padre a figlio, tanto meno col
piccolino, Michael, che ha solo cinque mesi. Paradossalmente sono io ad avere bisogno di loro, anche se non so
manifestarlo.
Starò qui per quattro giorni (pensavo peggio, la prima volta ci stetti due mesi), ho solo le lenzuola, la coperta
dell’amministrazione, i pantaloni, la maglietta, calze e scarpe.
Sento freddo la notte, non ho il pigiama, chiedo spesso alla guardia di turno di avere i pochi indumenti che ho
lasciato nel reparto della semilibertà, ma giocano a scarica barile. Li avrò dopo una settimana, uscito
dall’isolamento.
Un lavorante detenuto, svelto di mano, è riuscito a passarmi due sigarette, ma il difficile è riuscire ad accenderle.
Sembra impossibile a qualsiasi individuo normale che, in una situazione in cui la propria vita non ha più un senso,
si trascorrano quattro giorni a pensare al modo di come poter fumare due sigarette.
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Come previsto, arriva la classica accusa di 416 bis, ovvero “presunto mafioso”.
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Comincia il percorso carcerario in sezione Alta Sicurezza.
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Il mio fragile sistema nervoso non regge alla continua tensione e ormai penso di non poter fare a meno del sostegno
degli ansiolitici. La sera sono costretto a prendere la terapia per addormentarmi, dormo sempre scomodo e faccio
sogni abitati.
Il 1° giugno vengo trasferito a Padova, pensavo peggio a causa dell’evasione di Maniero, ma noto un’atmosfera
tranquilla. Il mio problema è la cella, adesso sono ritornato nel mio mondo e ho bisogno di stare da solo……………………………
Per tutta risposta mi portano un matto, ho passato quattro giorni a stargli dietro, mi terrorizzava l’idea che
volesse suicidarsi. Fumavo e bevevo caffè come un Kaymano per la tensione, non mi lasciava un momento tranquillo
con le sue manie di persecuzione, così una mattina mi sono alzato da guerriero, ho legato la bandana in testa e
all’apertura delle celle per l’ora d’aria sono uscito nel corridoio con la branda sotto braccio, disposto a tutto.
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Dopo dieci minuti ero nel braccetto d’isolamento con tutta la roba. Loro difendono il loro operato e io le mie idee
di detenuto, calpestato nei diritti. Ho avuto quindici giorni d’isolamento e sono contento, sto bene da solo e se era
per me ne avrei chiesti altri quindici.
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Vengo trasferito a Vicenza per “comportamento non consono”.
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La cella è uno schifo e non abbiamo nulla per pulire, ma qualcuno ci porta due bottiglie di acqua e un po’ di caffè,
e in quel momento ci sembra di avere tutto.
Il mio compagno di prigionia soffre di una patologia strana, che non so come si chiama perché mi vergogno a chiederlo.
La notte deve dormire con la luce accesa, perché altrimenti gli vengono delle crisi.
La prima notte la passo con l’asciugamano avvolto in faccia per stare al buio e stordito di “minias”. L’indomani
ci riprovo per cercare una soluzione, ma non gliene frega niente a nessuno. Beh, domani è un altro giorno e vedremo
cosa porterà.
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