Mala Vita - Racconti dal carcere

Camminano tutti allo stesso modo, quasi mai al centro degli interminabili corridoi. Le braccia penzolano lungo i fianchi, gli sguardi sono sfuggenti. Quando parlano, se fosse possibile togliere il sonoro, penseresti che si esprimano tutti nella medesima lingua.
Faccio caso a questi particolari quando uno di loro, che sta lì da più di trent’anni, me lo fa notare.
I movimenti delle labbra sono l’aspetto più curioso. L’ergastolano sostiene che in carcere si usino sempre gli stessi termini, per parlare sempre delle stesse cose.
Trovo improbabile ma affascinante la sua tesi. Non mi aspettavo un simile spirito di osservazione. Invece, chi vive a lungo dentro una cella, lo acuisce al punto da cogliere dettagli per altri invisibili.
Più si frequenta il carcere, più ci si scopre impreparati. E si comprende anche leggendo i racconti dei detenuti e delle detenute che hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza. Quattrocento. I migliori si trovano in questo libro.
Hanno scritto da tutta Italia, con una folta rappresentanza di stranieri. Il loro italiano stentato (ma non sempre) è una pennellata di colore, capace di restituire immagini di uomini rinchiusi, di vite segnate (quasi predestinate), di fughe dai tanti paesi dove l’Italia sembra un miraggio e per la quale si rischia anche la morte, pur di raggiungerla.
Colpisce il racconto del giovane marocchino che affronta il viaggio della speranza a bordo di un gommone. E’ assieme ai genitori, ma arriva solo. Il dopo, per lui, sarà tutto in salita. Il suo italiano è semplice e contaminato dal francese ma suggestivo. Abbiamo volutamente lasciato i “ki” al posto dei “chi” o le “vagues” per indicare le “onde”, perché, leggendo, sembra di sentirlo parlare con quella dolce inflessione.
La mamma egiziana, invece, racconta del Nido Blu. Nido, perché è il luogo dove stanno i bambini. Blu, perché le sbarre sono dipinte di quel colore. E’ il nido dentro il carcere. L’idea fa rabbrividire ancor più quando leggiamo le sue parole: “Ricordo che volevo dargli un bacino, non si poteva, hanno messo una rete, ho infilato le dita cercando di accarezzare il suo visino, ma mi sono dovuta accontentare di toccare le sue dita infreddolite”.
C’è sofferenza in tutti i racconti, ma qualcuno si spinge a descrivere l’aspetto ironico di alcune situazioni. Il boss di una borgata romana, in cella con due detenuti stranieri, offre all’autore lo spunto per un dialogo sulla profezia che il protagonista – e lui solo – intravede nella lettura delle carte. La conclusione è amara ma ci strappa un sorriso.
La latitanza e l’arresto sono comuni a chi vive nell’illegalità, ma acquista un sapore diverso se lo racconta una ragazza anarco-insurrezionalista o l’appartenente a una cosca mafiosa. In questo libro troviamo entrambi.
Com’è diventato narcotrafficante di un cartello boliviano, lo spiega l’inquilino di un carcere romano. La sua spavalderia si spegne all’istante il 20 settembre del 2001. “Una data che non avrei scordato per il resto della mia vita”, scrive.
C’è il rom “nato per fare il ladro”. E Luciano che chiede di essere chiamato Lucia, perché tale si sente, disperatamente. Le sevizie subite, all’interno di una famiglia di camorristi, lo/la portano a scrivere: “Gli agenti della polizia penitenziaria sono la mia famiglia acquisita”.
Un collaboratore di giustizia racconta senza indugi il suo passaggio alla criminalità organizzata - “Cominciai a sedermi al tavolo intorno al quale si decideva perfino della vita e della morte dei nostri avversari”- e poi il difficile viaggio di ritorno che sta tentando di compiere.
I detenuti di lungo corso sembrano sentire il richiamo delle origini, ed ecco che la loro terra diventa il centro dei ricordi: una Sicilia assolata e appagante di odori, una Sardegna primordiale sono teatro delle loro gesta. E’ la strada, invece, il territorio di caccia di due giovani tossicodipendenti che si prostituiscono per sbarcare il lunario.
C’è persino il racconto di un liberiano che ci catapulta in Liberia, dove un bambino soldato, insieme ad altri come lui, spara sulla gente dei villaggi perché così ordina “capitan Terror”, perché così hanno fatto con la sua famiglia, sterminata.
Di ragazzini della nostra Italia sono le storie giunte dagli istituti di pena o delle comunità che accolgono i minori. Da quest’anno il Premio Goliarda Sapienza ha voluto dedicare una sezione ai più giovani. Benché la devianza e il disagio siano al centro delle storie, quello che rimane a noi lettori è l’immagine di adolescenti con la voglia di normalità. Di amore, soprattutto.
I loro racconti, che descrivono con disincanto scene degne di un film – rapine, spaccio, furti, fughe, arresti, – ne rivelano anche tutta la fragilità e inducono in noi, negli adulti, riflessione, ma anche imbarazzo per l’inadeguatezza di fronte al fenomeno della devianza minorile, in continua ascesa.
“La seconda volta che sono stato arrestato è stata e sarà anche l’ultima”, conclude uno dei nostri giovani autori. E’ una mano tesa, la sua. Sta a noi afferrarla.

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