Introduzione - Di Antonella Bolelli Ferrera

Quando il bambino tornò si mise come sempre ad aspettarla sull’uscio di casa. Casa. In realtà una minuscola baracca in mezzo alla campagna con una stanza e una specie di bagno all’esterno dove fare i propri bisogni. Quel giorno l’attese fino al tramonto, ma lei non tornò nemmeno quando si fece buio e le stelle cominciarono a brillare nel cielo della notte. All’alba del giorno dopo il bambino era ancora lì, solo, ad attenderla inutilmente.

Avrà avuto ieci anni Stefano, quando subì l’abbandono della madre. Oggi ne ha più di cinquanta ma il ricordo di quel vuoto improvviso, di quel dolore, è così vivo e cocente che leggendo il suo racconto sembra di udirne il lamento.

Storia di un’infanzia negata, una storia come tante nel mondo carcerario dove tanti ex bambini approdano ogni giorno per ragioni-reati diversi, in comune hanno l’inizio sbagliato ai nastri di partenza di quella gara a ostacoli che è la vita.

C’è chi la sua carriera di fuorilegge la comincia ancora ragazzino: “Avevo quattordici anni. La mia specialità era scippare le vecchiette. (…) Poi sono passato ai furti in appartamento, un lavoro più tranquillo, più pulito. Almeno non vedevo in faccia la gente che derubavo”. Lo scrive Butterfly, autore di uno dei racconti di questo libro, finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Sono storie di donne e di uomini detenuti, e anche di giovanissimi del circuito penale minorile. Tutti sembrano raccontare la stessa verità di fondo, a volte in modo diretto, crudo, quasi brutale: “Nelle fantasie di bambino i supereroi erano i parenti che vendicavano l’ultimo morto e liberavano la famiglia da quel sangu chi faciva u murmuru”. Paolo, cresciuto in una famiglia mafiosa, non vede l’ora di imboccare quella strada già tracciata da regole non scritte dove se nasci femmina devi piangere i morti e se nasci maschio devi rendere giustizia e vendicare quel sangue. Così farà, anche se quel giorno non proverà né orgoglio né soddisfazione, solo ribrezzo. Ma un “uomo d’onore” non può mostrare alcun cedimento.

C’è chi, come il giovane Valia, cerca una spiegazione (non una giustificazione) alla propria storia di devianza usando la metafora e infilandoci un aggettivo inventato che ha sentito alla Tv: “Mi sento petaloso, ma cresciuto in un prato sbagliato (…). Un fiore diventato arido come il terreno da cui proviene. Brutto e pungente per non farsi strappare”.

Adelmo, invece, romano della Magliana, figlio del Freddo, scrive che farsi amare da lui era talmente impossibile che per riuscirci ha cercato di eguagliarlo. Ci è riuscito, e adesso è in galera. Subito, però, infilza il lettore con una frase che rivela la ricerca di attenuanti per quel padre presuntuoso che si credeva un Dio in terra: “Il danno dell’amore si trasmette di generazione in generazione: lui, senza una madre da abbracciare, come poteva accogliermi?”.

Antonio Pascale nella sua introduzione a uno dei racconti arriva a chiedersi se esista un determinismo ambientale e persino un determinismo genetico che influenzino la capacità di gestire il proprio destino. I racconti, quasi tutti, come le altre centinaia che hanno partecipato al concorso, suggeriscono questa domanda, anche se ogni vita in fondo ha una sua unicità. C’è una tale amalgama di sentimenti contrastanti in queste storie (in queste vite) da permettere quasi di coniare nuove definizioni come l’odiore, o la disperanza, quando sono l’odio e l’amore, la disperazione e la speranza, a farsi la guerra dentro lo stesso animo. Ogni tanto uno dei due prevale: “Fin da quando ero giovane a rendermi forte era stato il rancore dei miei nemici, ancora più del mio nei loro confronti”, scrive Salvatore, ma ecco che qualcosa accade e gli fa ammettere “Questo ragazzo, privandomi del suo (ndr disprezzo), mi costringeva a trattarlo senza l’indifferenza e la malizia che avrei voluto. Era la peggiore delle condanne per me, visto che avevo usato l’idea del suo disprezzo per alleggerire la mia coscienza”.

Sono soprattutto storie al maschile: racconti di uomini in gabbia, in fuga, in agguato, in azione. Le poche al femminile battono su un diverso medesimo, drammatico tasto: la violenza sulle donne. “Mamma permetteva a mio fratello di picchiarmi. Mi diceva: diventerai donna, preparati a soffrire”. Lo scrive Olga nel suo racconto “Il cerchietto di soffioni. Confessioni di un’assassina”. Sì, perché un giorno, in un crescendo di rancori covati e di violenze subite, forse in parte solo nella sua mente, quella mamma lei l’ha uccisa.

Deja vu invece è il racconto di uno stupro perpetrato nel tempo. Vittima una ragazza adolescente. L’orco è il nuovo compagno della madre. “È tornato. (…) Riesco a sentire il cattivo odore del vino che penetra dalla porta della mia cameretta. È un odore che ricorda l’uva caduta e mai raccolta, acini decomposti. Tiro la coperta sopra di me. (…) Mi convinco che se non posso vederlo, anch’io risulterò invisibile ai suoi occhi.” Inizia così, il resto è il lievitare di un’agonia che si manifesta ogni notte, dove l’attesa della violenza è terrificante più dell’atto che presto sarà consumato su quel corpo indifeso.

L’orco si manifesta anche nel racconto di Gianluca dove un sedicente mago fa scempio dell’ingenuità di un bimbo di nove anni, caduto nelle sue grinfie perché nelle vie di Napoli non aveva un posto dove mangiare e dormire. Perché a casa non aveva nessuno che lo accudiva e lo proteggeva. “Mia madre, lo sguardo paralizzante degli occhi di un cobra, non ha pianto una sola lacrima per me. E neppure mio padre: lui non è mai esistito”. Sarà il boss di un quartiere a prenderlo sotto la sua ala protettrice e il carcere diviene quindi l’approdo automatico. Ma è proprio qui che prende la licenza di scuola media, che trova l’amicizia e qualcuno che lo aiuta a ricucire i fili di una vita spezzata. Ed è commovente la chiosa finale dove l’autore sente il bisogno di chiedere perdono. Di chiederlo non solo alle persone cui ha fatto del male, ma di chiederlo alla madre dagli occhi di cobra e a quel padre inesistente “per non essere stato il figlio che volevano ma essere stato il figlio che non volevano”. Ha parole persino per l’orco: “Ho provato a perdonare anche lui, ma ancora non posso. Forse un giorno, con l’aiuto di Dio”.

Imboccare la strada del perdono (agli altri e a se stessi) non è facile per chi si trova recluso e ritiene di avere in tal modo saldato ogni debito, anche quello con la propria coscienza. È un tema che solitamente non trova spazio nei racconti dal carcere, ma il Giubileo dei carcerati voluto da Papa Francesco, e a cui l’edizione 2016 del concorso era ispirata, sembra aver dato energia a un sentimento che era lì sopito e ha preso vita anche in queste pagine. Non tutti vi giungono con la stessa intensità e convinzione. Certamente il saper esprimere attraverso la scrittura un’esigenza dell’anima così intima dimostra di non avere paura di ciò che rimarrà per sempre, nero su bianco, sulle pagine di un libro. La scrittura come potente antidoto, scrive Erri De Luca.

“Io scrivo in preda alla disperazione. Io scrivo per sopravvivere. Scrivo perché ho bisogno di riempire il tempo. Scrivo perché voglio star meglio. Io non scrivo perché non mi va, perché la mia mente è chiusa, ma poi lo faccio perché mi voglio sfogare”. Incipit di tante piccole storie di un racconto corale scritto da Antonio, un giovane del minorile. “Come si placa il dolore?”, si chiede uno di loro. La risposta sembra giungergli da quel compagno di detenzione, pentito per essere partito dalla Libia senza aver detto addio a nessuno, e che conclude: “il dolore finisce con il perdono”.

C’è chi ammette però di non esserne capace. “Qualcuno ha provato a dirmi come mi sarei dovuto sentire e cosa avrei dovuto provare”, scrive Michele che un giorno sparò a un uomo, uccidendolo. Nemmeno per lui, che ha trasformato la vergogna e il dolore in odio, è stato facile parlare di riconciliazione, non è ancora pronto. Ma infine ammette: “Non arriverò correndo, ma arriverò”. Qualcuno è caustico e dal suo tunnel ancora non si intravvede la luce: “La morte non rende tutti uguali, e forse anche le richieste di perdono funzionano allo stesso modo”. Ma Elias appartiene a un mondo arcaico, immerso nel cuore della Barbagia, dove vigono regole non scritte quasi in antitesi ai nostri Codici, dove il concetto di valentìa rimane un credo irrinunciabile. Qualcuno si chiede candidamente cosa sia il perdono e si risponde: “credo sia un sentimento, qualcosa di infinitamente profondo. Pare faccia vivere meglio”. Forse a suggerirglielo è stato quel prete “dai capelli lunghi e l’incolta barba bianca. Mezzo pazzo e mezzo rivoluzionario, non sembrava quasi un sacerdote. (…) Ha scavato nelle mie membra fino a toccarmi l’anima.”

Ognuno, a modo suo, fa i conti con la propria coscienza e la maggior parte trova il coraggio di pronunciare la parola fatidica. È poesia con Fusano “Se solo queste vite fuori dal tango sapessero che il verbo amare non si sposa con dare, ma con perdonare.” E con il giovane Unknown che in questi anni ha percorso un lungo tratto di strada: “Una sola è la vita, infinite sono le possibilità di cambiarla, l’unica regola è non negare mai le proprie origini”. E nelle ultime parole il senso della sua trovata consapevolezza: “Perdonate l’emozione”.

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