Sono sveglio ma non mi alzo. Ho sete ma non bevo. Mi godo il torpore dei miei muscoli e delle mie ossa, zittisco anima e coscienza, tanto loro sono abituate e mi lasciano in pace da tempo, assaporo il silenzio. È difficile credere che questa sia la stessa sezione di ieri sera, è difficile credere che questo sia lo stesso carcere senza la gente che strepita e dà di matto: cemento urlante, tutto intorno a me. Anche fuori di qui, anni fa, il silenzio dell’alba era un regalo impagabile.
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Ho visto persone tagliarsi, cucirsi e tentare il suicidio; ho visto persone prendere a testate il muro, sballarsi col gas delle bombolette o bruciando le posate di plastica; ho visto persone bere la candeggina, ingoiare pile o lamette; ho visto gente salire sui tetti, buttarsi giù dalle scale volontariamente e inventare nuove forme di autolesionismo (anche acrobatico e sincronizzato); ho perso il conto degli affiliati (sedicenti e molto presunti) alle varie associazioni a delinquere, mafie e affini, dalla “A” (muta) di ‘ndrangheta alla “Y” della Yakuza giapponese (anche se qualcuno la chiamava Jacuzzi); l’apice è stato toccato da un detenuto pugliese che mi assicurava di far parte degli Hell’s Angels di Los Angeles. Il punto dolente di tutta la faccenda è che senza nemmeno rendermene conto questa è diventata la mia vita.
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Il 6 ottobre 2008 ho sparato a un uomo, uccidendolo. Ho fatto ciò che ho fatto, sono stato giudicato, sono stato messo in un angolo. Qualcuno mi ha chiesto come mi sentissi e cosa provassi. Qualcuno ha provato a dirmi come mi sarei dovuto sentire e cosa avrei dovuto provare. La verità è che ho superato un limite che non andava nemmeno sfiorato.
Ho da scrivere una favola di orchi e di fate.
Sono cresciuto incolpando mia madre di avermi abbandonato. Sono cresciuto coltivando il dolore.
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Un giorno decisi di scrivere a Martina, la più piccola delle mie figlie, che oggi ha ventidue anni.
“Ciao Piccola Rosa bianca, io e te ci siamo sempre visti solo nella sala dei colloqui, e quando ero fuori non parlavamo molto. So che non sono mai stato un padre, io non c’ero mai: alla tua prima comunione, al tuo primo giorno di scuola, al tuo diciottesimo compleanno. Tu eri piccola, e una volta che mi hanno arrestato, ti ho lasciato al commissariato.
Ci vorrà del tempo perché tu mi perdoni, quanto ne è trascorso prima che io trovassi il coraggio di chiedertelo”.
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La nuova risposta di Martina non si fece attendere.
“Ciao papà, c’è una cosa che volevo dirti: tu non parli mai di nonna Natalina. È tua madre. Ho visto una sua foto, l’aveva mandata per te in una lettera, mamma mi ha detto che non hai mai voluto leggerla. Che cosa dirò ai miei figli se non conosco la storia di mio padre?”
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Non so chi fosse mia madre: distratta, bella e con gli occhi sempre tristi, non ho avuto il tempo di conoscerla, io non capivo molto di lei.
Non era una madre severa, mi ricordo che le sere di primavera ci sedevamo sul gradino, davanti alla porta, in compagnia della luna e delle lucciole che danzavano sul piccolo orto che lei curava con amore.
Mi raccontava le fiabe di un orto fatato dove, al calar del sole, le verdure si animavano.
Elias, attraverso un lento processo di gemmazione spontanea e al continuo contatto con la personalità della madre, formava il suo carattere e il suo fisico.
A quindici anni il suo corpo era forte e sano e aveva preso possesso dei suoi sensi. Sospinto dal silenzioso assenso della madre, cominciò a seguire suo padre in campagna. “Questo figlio”, pensò la donna, “è fatto della mia stessa pasta e non tarderà a far rispettare i nostri beni che fino a oggi sono stati a disposizione di chi voleva prenderseli”.
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Per prima cosa imparò a camminare in aperta campagna e fu bello riuscire a tenere il passo del padre senza stancarsi. Si trattava di sentirsi nello stesso tempo leggeri e pesanti. Leggeri, perché non si doveva gravare con il proprio corpo sulle gambe, e pesanti perché si dovevano sentire i piedi come qualcosa su cui poggiare sicuri.
E poi, saper usare gli occhi! Sì, perché per camminare come un uomo, bisognava imparare a osservare e valutare sia le cose vicine sia le cose lontane, segnali o avvertimenti di possibili percorsi e di probabili pericoli.
Lui è lì; ha abbassato la maniglia e ha varcato la soglia. Me lo immagino: la sua figura immensa e mostruosa, imponente e adrenalinica. Presto quei gesti pacati e innocui lasceranno il posto agli incubi.
Una mano ruvida e callosa mi carezza lo stomaco. Rasposa come una lingua felina. Ho imparato, col tempo, che ogni tipo di movimento io faccia può far degenerare la situazione. D’altronde, lui mi preferisce così: inerte.
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È tornato. Speravo che tornasse; che ciò che sta per accadere, avvenga.
Gongolo e tremo di adrenalina. Avverto la puzza di vino mista a bile insinuarsi dalle fessure della porta di camera mia. Oggi quell’odore ha un profumo diverso, di rivalsa.
Una risata isterica dopo un rigurgito dormiente. Tiro la coperta sopra di me. Cercando di nascondere al meglio il manico del coltello che fa capolino da sotto il cuscino. Mi convinco che potrò farcela. Ogni muscolo del mio corpo è teso allo spasimo e brama vendetta. Lui è lì, ha trovato la porta socchiusa e nella penombra mi pare di scorgere un ghigno di soddisfazione sul suo volto. Trattengo il fiato e chiudo gli occhi. Farò a meno del rifugio, questa notte.
Paolo rimase con gli occhi chiusi. Tutto ciò che aveva vissuto faceva parte di un copione scritto da secoli, che chiunque altro, al posto suo, avrebbe dovuto recitare fedelmente. A iniziare da quei fuochi d’artificio con cui suo padre, il fratello del capobastone della zona, aveva annunciato a tutti la nascita tanto attesa del figlio maschio, un altro uomo che avrebbe dovuto onorare la famiglia; botti di buon augurio che avevano già segnato la sua strada di malasorte. Nelle orecchie riecheggiavano le parole che avevano accompagnato la sua infanzia, ripetute puntualmente dalla madre e dalle sorelle maggiori ogni volta che un parente veniva ammazzato. Poche parole pronunciate come un grido di dolore, poi una cantilena angosciosa che ti entra nel cervello e non ti lascia in pace, come le anime che non avrebbero avuto riposo prima della vendetta: “Sangu chiama sangu... U sangu faci u murmuru... Sangu chiama sangu…”
“Casa mia è!” gridai, mentre tentavo di passare attraverso le sue gambe. Lo sbirro si piegò su di me e, prima che potessi fargliela in barba, mi afferrò per la cinta dei pantaloni e mi sollevò di peso in aria.
Non dandomi per vinto, cominciai a dimenarmi e a urlargli contro tutte le parolacce che a quel tempo formavano il mio scarno vocabolario. Smisi di farlo solo quando ci raggiunse mia mamma, che aveva sentito le urla. Era pallida come un cencio, gli occhi vitrei e arrossati di lacrime.
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Lei mi pregò di smetterla, poi mi voltò verso di sé e mi abbracciò forte mentre mi sussurrava che papà questa volta non sarebbe più tornato a casa.
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La consapevolezza che io non avrei mai stretto la mano che mi aveva reso orfano, anche solo per rispetto alla memoria di mio padre, mi rendeva incapace di capire come Nannino Vici potesse farlo. Se fosse stato per me, avrei tagliato quella mano assassina del mio sangue e l’avrei portata al collo come amuleto; non mi avrebbe quindi sorpreso se lui avesse immaginato di fare la stessa cosa con me; ritenevo anzi che avessimo lo stesso diritto di meditare vendetta. L’idea che potesse rinunciarvi acuiva la mia diffidenza.
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Fin da quando ero giovane a rendermi forte era stato il rancore dei miei nemici, ancora di più del mio nei loro confronti, e questo ragazzo, privandomi del suo, mi costringeva a trattarlo senza l’indifferenza e la malizia che avrei voluto. Era la peggiore delle condanne per me, visto che avevo usato l’idea del suo disprezzo per alleggerire la mia coscienza
Questa storia noi l'abbiamo costruita insieme.
Abbiamo scritto insieme queste pagine confuse, seduti sui banchi disordinati di una scuola carceraria: qualcuno non ha perso un incontro, qualcun altro è andato subito via. Molti si sono stancati perché “tanto è tutto inutile, è solo tempo sprecato”.
Allora penso a tutti quei ragazzi che hanno passato il loro tempo insieme a me, e dedico loro questo lavoro infinito di ricerca e di gioia effimera.
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Antonio è uno di noi, 17 anni compiuti in carcere, passati in fretta, volati in un baleno, dimenticati agli occhi di tutti.
Antonio siamo noi, scarpe grandi e cervello fino, mani veloci e capelli tagliati a mezza testa.
Antonio sono io, cresciuto in carcere, perché in fondo rinchiuso sto bene e non mi lamento mai; pensavo di essere forte e di non aver paura di nulla. Ero bravo a fare rapine, fino a quando non mi hanno arrestato.
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Cara mamma, per me sei unica, mi hai portato nel grembo per nove mesi, mi hai allattato al seno per due anni. Ho solo te in questo mondo, e mi manchi. So che sei arrabbiata con me, perché ho scelto di partire.
Io sto bene, ma non sono felice.
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Voglio stare con te a guardare le stelle. Mi manca il calore dei tuoi abbracci. Un’ora di colloquio a settimana non mi basta, non mi basta più!
Ma da questo angolo le stelle non si vedono, affogate dalle luci dei lampioni.
Non è giusto non poter vedere mai le stelle di notte.
Le vacanze stanno per finire e bisogna approfittarne, le strade di Napoli in questi giorni sono piene di gente. Prendo la moto, una Honda Transalp, ma non metto il casco, perché a Napoli di notte è meglio girare senza casco piuttosto che farsi ammazzare per una svista. Abito in una piccola stradina di periferia al rione Traiano. Mentre cammino incrocio una pattuglia dei carabinieri a fari spenti. Penso “stasera non mi va di giocare a guardie e ladri”, meglio che mi sposti dal rione.
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Sento la sirena di un’ambulanza, voci concitate, sembrano tutti impazziti. Odo parole del tipo: “È morto, l’hanno sparato, era un bravo ragazzo”. Incontro un mio amico, lo fermo e gli chiedo cosa sia accaduto. “Un carabiniere ha speronato un gruppo di ragazzi facendoli cadere, poi ha esploso un colpo. Uno è finito al Pronto Soccorso”.
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Gente che di notte cammina armata per difendersi dal nemico, imbottita di alcool, droga, cocaina, che si esalta mettendo in mostra la forza, sparando in aria o contro i bidoni della spazzatura, e che se sgarri ti punisce. Gente che non è capace di perdonare.
La vita vale poco nelle periferie di Napoli. Si muore per un’offesa, per frequentare la donna sbagliata, la donna del boss del quartiere.
In un attimo puoi distruggere la vita e forse non ne basterà un’intera per ripararla.
Anna ora è sposata, ha due figli e un uomo che non la merita.
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“Totò, ma chi è stà guagliona?”
“È Anna, la figlia di Antonia”
“Ma pcchè Antonia ten nata figlia femmena?”
“E pcchè non o sapiv?”
“No, nun l’aggij maij vista!”
“Essa nun è com’ a lat’, è na purosangue”
“In che sens, Totò?”
“Ca nun è na…”
Appoggiai le spalle al muro e alzai gli occhi al soffitto, sorridendo. Totò mi conosceva bene, sapeva della nomea di “sciupafemmene”.
Abbandono la razione, spazio alla fantasia. Il mondo è intrappolato in un’enorme nave, non una qualunque, una nave che è magia, un posto che racchiude la mia casa, le mie strade, e tutto quello che di vero so.
Poi c’è il mare. È quello che provo, l’odore dell’amore, il sapore della verità, la melodia che ora sento, il colore della libertà, ciò che non mente mai, come il calore che provo in un abbraccio. È la vita.
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Noi siamo alla riva, insieme ai nostri limiti, esorcizziamo le nostre paure, parliamo di vita, qualcuno dice “siamo liberi”, ma con o senza mura, non lo siamo, siamo spinti a distrarci da noi stessi, per diventare masse di schiavi per i falsi.
Ero nel mezzo del 2012, in un letto, non il mio, un letto qualunque. Lo stereo era acceso, il disco sussurrava appena, storie, parole tristi, ma canzoni bellissime, musiche così meravigliose, che il dolore dal quale venivano passava in secondo piano.
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Urlai più forte del dolore che era dentro di me, provai quelle emozioni così intensamente da non sentirlo quasi più, il dolore. Così, con quell’odore di morte, nauseante, io non svenni, e soprattutto, non mi fermai. Iniziai il mio Viaggio.