Il giardino di cemento armato - Racconti dal carcere

Carcere, devianza, emarginazione, abbandono. Sono comuni denominatori, ma le ventisei storie contenute in questo libro sono così distanti fra loro da condurre il lettore nel labirinto del mondo carcerario attraverso percorsi sempre diversi.
Racconti shock. La profuga siriana che, appena adolescente, diviene merce di vendita per le milizie, i soldati e i trafficanti di esseri umani. “Eravamo la moneta di scambio tra i ribelli e l’esercito del regime”. La mamma che insegna a suo figlio come confezionare le dosi di droga. E il bambino scrive: “La mattina dopo, preparo lo zaino per andare a scuola, come facevo prima. Adesso, però, nell’astuccio ho infilato venti stecche che devo piazzare”. La sedicenne che uccide la propria sorella gemella “Lei aprì gli occhi, terrorizzata alla vista del mio sguardo infuocato di odio, le tappai la bocca e la colpii al cuore, ripetutamente”. L’ascesa gerarchica di un killer mafioso in un’escalation di violenza e morte che lo spinge alla fredda esecuzione del suo migliore amico “…quello con cui siamo cresciuti. Un giorno lo invitai a prendere un caffè e poi a fare un giro in auto”. La scoperta del suicidio di un compagno di cella. “Si voltò, gli occhi semichiusi, e si trovò davanti al viso le scarpe del Topo che facevano avanti e indietro.
A volte con la crudezza di un articolo di cronaca, altre con i ritmi incalzanti del romanzo di avventura, a volte “favole di assediati dentro a una fortezza” (scrive Erri De Luca), gli autori hanno scelto stili diversi per raccontare, ma ciò che si percepisce è la volontà di svelarsi. E si rimane irretiti nella lettura, alla scoperta di esistenze così (apparentemente) distanti dalle nostre, catapultati in un mondo che respinge e incuriosisce, turba ed emoziona, come spesso accade al cospetto di esistenze proiettate oltre il limite. In questo caso, della legalità. E ci sentiamo inaspettatamente più vicini a loro, forse perché “La scrittura – scrive Lattanzi, una degli scrittori-tutor - è un ponte capace di unire una storia piccola, dettagliata, distante anni luce da noi e dal nostro vissuto per tempi, luoghi, vicende, alla nostra piccola, dettagliata storia personale.
Storie che hanno preceduto l’ingresso in carcere ma che il carcere, anche, lo raccontano. E ci sono tanti modi per farti piombare fra le sue mura grigie e sentire la morsa soffocante degli spazi chiusi o il senso di solitudine. Solitudine dell’anima - i corpi sono spesso costretti a vivere ammassati - a volte inseguita, per estraniarsi da una realtà che si sarà costretti a vivere per molti anni o per il resto della vita, ma che affina i sensi e la percezione degli altri. “La restrizione in carcere gli ha donato uno sguardo che va oltre le carni” scrive Lucarelli di Rega, che del “ragazzo col cappotto” riesce a cogliere il segreto: “Pareva posseduto da forze malefiche… Presi coraggio per domandargli se soffrisse di qualcosa. Sono schizofrenico, come mia madre, rispose”.
Solitudine che è anche “un limbo nel quale, presto o tardi, ti ritrovi a ragionare sulla sensatezza o meno della tua esistenza” scrive Salvatore Torre, condannato all’ergastolo, che intravede solo due possibilità di liberazione “ il suicidio o la rinuncia alla vita, che è la pazzia.
Mike”, autore di un altro racconto, ha cercato di mettere in pratica la prima soluzione “Mi procurai un sacco nero, di quelli per la spazzatura. Per averlo, diedi in cambio il dolce che ci passavano alla domenica per colazione. Tutto era deciso, avrei utilizzato la bomboletta del gas.” Mike oggi è vivo per miracolo, altri sono riusciti nel loro intento.
Francesco De Masi - “una vita da montagne russe e leggi violate” scrive Andrea Vianello - sostiene invece che ci voglia una certa fibra per resistere al carcere “d’altronde quando si sceglie la malavita, ci vuole il fisico per stare a galla.” E c’è da crederci, visti i suoi trascorsi.
Anche se la detenzione scandisce per tutti un andamento ripetitivo nelle abitudini e nelle dinamiche, ognuno la vive in modo diverso. Come inutile supplizio, ingiustizia, come vendetta della società. Oppure come luogo, anche, di ripensamento (non necessariamente di pentimento, parola bandita dentro ogni carcere). Trapela nel racconto di Stefano Lemma, senza esplicitarsi. Giancarlo De Cataldo scrive “la colpa, qui, coincide con la pena. E il condannato, questa pena, non solo la sceglie da sé, ma, come nella “Colonia Penale” di Kafka, a sé la infligge, diventando per un istante, quello supremo, giudice di se stesso”.
Francesco Fusano, in una sorta di lucida follia, si sente “disconnesso dalla società”. Comincia così il suo racconto “ERROR: Tossicodipendente, Criminale, Gay”. Preda di crolli emotivi che si alimentano nel disagio e nella devianza, l’autore riesce a chiudere con una frase di speranza “Fuori c’è un mondo sconosciuto che attende di essere visitato, e io sono una persona nuova. Ora ho un sistema operativo di ultima generazione.”. Una volta libero, per lui, non sarà così.
Sono storie che suscitano, di volta in volta, sentimenti contrastanti, mai tese a fare leva sulla pietà. E’ però innegabile che i racconti dei minori o quelli che rievocano l’infanzia di detenuti oggi adulti, siano spiazzanti.
A volte, mia madre preparava uno spinello per fumarcelo insieme. Non ho mai capito se questa fosse la dimostrazione del suo modo di volermi bene.
Mi addestrarono, a suon di botte, all’uso delle armi e delle bombe… mi dissero che quando si spara si deve ridere.”
La mamma ha cominciato a frequentare persone poco raccomandabili con cui partecipava a situazioni sessuali delle quali rendeva partecipi anche noi bambini.
Prima ancora della prima elementare, molte “ripetizioni private” m’insegnano un confuso e rabbioso dolore”.
Carlo Verdone, tutor di un giovane del circuito penale minorile, non ha dubbi: “Quale colpa ha avuto “Gabriel” nel percorrere per anni un sentiero che portava dritto al baratro? Alcuna. Altri sono stati sciagurati artefici del suo destino.
Alessandro D’Alatri parla di “una sconfitta che ci appartiene” e vede il testo di “Unknown” come un “messaggio in bottiglia” che le maree hanno restituito dopo innumerevoli tempeste. E di tempeste, questo sedicenne deve averne attraversate, per decidere di iniziare il suo racconto così: “Gli eroi non esistono, e se esistono non sono positivi, quindi seguirò quello sbagliato, finché non me ne accorgo”. Chissà se oggi qualcuno che ha intercettato in lui molte potenzialità, non gli abbia fatto cambiare idea?
Diversi interrogativi affolleranno la mente dopo la lettura di queste storie e saremo tentati di trovare da soli una risposta al “male”. Anche delle giustificazioni. Forse perché sappiamo che il lato oscuro si nasconde in ciascuno di noi, pronto a palesarsi.
Saremo tentati, al contrario, di ergerci a giudici quando il delitto ti sbatte in faccia il supplizio delle vittime (mai evocate abbastanza).
Occorre un respiro e cominciare a leggere. Senza pregiudizi.

Antonella Bolelli Ferrera

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