PREFAZIONE

di Monsignor Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede

Un mondo a parte

«Il cielo è, al di sopra del tetto, / così azzurro, così calmo! / Un albero, al di sopra del tetto, / dondola la sua palma. / La campana, nel cielo che si vede, / dolcemente rintocca. / Un uccello, sull’albero che si vede, / canta il suo lamento. / Dio mio, Dio mio, la vita è là, / semplice e tranquilla. / Quel placido brusio / viene dalla città. / Che hai fatto, tu che sei qui / e piangi senza fine, / dì, che ne hai fatto, tu che sei qui, / della tua giovinezza?». Con queste parole, intrise di dolore e nostalgia, ma nello stesso tempo animate da un respiro di speranza, il poeta Paul Verlaine evoca la sua esperienza del carcere. Sente profonda la separazione tra il mondo dentro le mura e quello fuori, tra il brusio del fluire placido della vita e l’implacabile monotonia che toglie il respiro e modifica la percezione del tempo e dello spazio.

Il grido del sangue di Abele ricorda che la storia dell’umanità è segnata dal peccato e, a volte, il peccato è anche un crimine. Questa è la distanza tra noi e un uomo o una donna in carcere: hanno compiuto un’azione che viene dichiarata reato dal codice di diritto penale. Per questo, come il peccato è assunto dal cuore misericordioso di Dio, anche il reato viene assunto con decisione e tratto di certezza dalla società che sa mostrare – almeno si spera – la cura per una riabilitazione della libertà fino a renderla di nuovo capace di scegliere il bene.

Oggi, non mancano riflessioni e dibattiti sulla capacità del sistema detentivo di reintegrare uomini e donne nelle regole sociali, al fine di ristabilire il profilo della dignità umana, soprattutto riconsegnando visioni progettuali positive alle persone. Fare i conti con un peccato, che ha i connotati del reato, e con le conseguenze che sono reclusione e spesso solitudine e abbandono, costringe a situazioni di marginalità, di precarietà, di drammaticità a cui non possiamo abituarci chiudendoci in un gelido cinismo.

A questo proposito è significativo il richiamo di papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia “Misericordiae vultus”: «In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (n. 15).

Proviamo ad ascoltare il muto grido, intriso di rabbia e rassegnazione, facciamo spazio nel nostro cuore al procedere inesorabile di giorni nei quali le persone invecchiano senza accorgersene, bruciano gli anni migliori della loro vita, fino a odiare se stessi e gli altri, mentre versano lacrime amare per la morte del padre o della madre che non hanno più potuto riabbracciare. Tutto sembra un interminabile oggi con un prima da detestare e un domani di cui non si coglie il profumo dell’alba.

Le pagine di questo libro, grande e doloroso affresco di una umanità dolente, ci guidano a un esercizio di ascolto e di comunicazione inedito, attraverso uno sguardo sulla vita dalla prospettiva di chi sta dietro le sbarre. Trascorrono anni della loro esistenza e avvertono nella propria carne che in carcere non c’è nulla di eroico, di romantico, di “formativo”, ma soltanto la amara convinzione di aver fallito qualcosa, di aver fatto del male a se stessi, alla propria famiglia e alle persone più care.

Proviamo solo a immaginare, come in una sequenza onirica, il rumore della chiave che gira nelle serrature e annuncia l’inizio di un altro giorno, uguale al precedente e a tanti altri già consumati ma non dimenticati. Così, mentre i passi della guardia si allontanano si sente risuonare nel cuore una voce a ricordarti che sei in carcere, privo della tua libertà, e ogni tuo diritto dipende da altri. La giornata si apre ancora una volta con lo sconforto di dover vivere da spettatore, pieno di rimpianti e di rancore, ma anche di autocritica e, per grazia, anche di pentimento.

Misericordiosi e giusti

Partiamo da una convinzione ancora abbastanza diffusa: servire Dio significa “pagarlo”, offrirgli sacrifici in modo da garantirci i suoi favori. L’uomo, dunque, cerca di placare Dio risarcendolo con il sacrificio. La Bibbia propone, invece, una modalità diversa di “servire” Dio. In essa si dice che servire Dio significa servire/amare il fratello, cioè per puntare diritto al Creatore è necessario “deviare” verso la creatura. Questo procedere diritti deviando, la Parola biblica lo definisce giustizia (cf Is 1,16-17). La misericordia, dunque, nella prospettiva biblica è il compimento della giustizia, che ha il suo culmine nelle parole di Gesù «ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La misericordia, nelle parole di Gesù, annuncia che il tempio è senza dubbio un luogo della presenza di Dio, ma vi è anche un altro spazio sacro in cui questa presenza è, per certi aspetti, “più grande”, e questo è l’amore per i fratelli, il luogo dei rapporti umani cambiati secondo l’ordine della compassione. Forse, ci farebbe più comodo un Dio che chiede sacrifici in un tempio, ma il Dio biblico ha un concetto di persona più alta, un’idea di uomo fatto a Sua immagine e somiglianza. Di fronte a questa modello di persona così elevato stentiamo a comprendere, non riusciamo a coglierne in pieno il significato.

È ancora Papa Francesco a offrirci lo spunto per una riflessione schietta, senza reticenze o inutili ipocrisie: «Non sarà inutile in questo contesto richiamare al rapporto tra giustizia e misericordia. Non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore. La giustizia è un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si fa riferimento a un ordine giuridico attraverso il quale si applica la legge. Per giustizia si intende anche che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia, molte volte si fa riferimento alla giustizia divina e a Dio come giudice. La si intende di solito come l’osservanza integrale della Legge e il comportamento di ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio» (Misericordiae vultus, 20).

Siamo tutti consapevoli che, da un lato, è necessario tutelare la società da eventuali minacce, dall’altro reinserire chi ha sbagliato senza lederne i diritti e senza escluderlo dal tessuto sociale. Entrambi questi aspetti hanno la loro rilevanza e vanno connessi per creare una sinergia tra la realtà carceraria attuale e quella pensata dalla legge, che prevede come elemento fondamentale la funzione rieducatrice della pena e il rispetto delle norme giuridiche e della dignità delle persone.

Quali le prospettive di giustizia, allora, per questo nostro tempo? Giustizia riparativa, mediazione penale, modalità di risposta – materiali e simboliche – al reato e al reo che ricerchino responsabilizzazione e avvicinamento alle vittime: una giustizia, cioè, che non separi e isoli; che sia vissuta meno come il luogo della lite e della frattura e più come luogo di composizione di conflitti, di ristabilimento dell’armonia sociale nel senso dell’antica giustizia biblica. Sulla base di queste riflessioni, in coincidenza anche con l’Anno Giubilare, da più parti, si è levata la voce a favore di “gesti di clemenza”.

Mi sembra importante sottolineare che i gesti di clemenza non possono essere in nessun modo riconducibili solo all’amnistia o all’indulto, per esempio. Le misure di indulgenza invocate, infatti, hanno ragione d’essere se inquadrate in radicali e innovative riforme strutturali dell’intero sistema penitenziario. La vera sfida per la società civile e la comunità cristiana è che il carcere sia parte viva della convivenza quotidiana, altrimenti non ha senso parlare di gesti di apertura, né tanto meno di risocializzazione, reinserimento, riconciliazione e accoglienza.

In questo senso, il tempo del Giubileo può essere la stagione più opportuna per promuovere riforme in tema di giustizia. Allo stesso tempo, il gesto di risocializzazione trova valore se legato a qualche riforma e deve rappresentare per il beneficiato anche la coscienza di un cambiamento di vita. Infatti, i gesti di recupero e di misericordia non significano perdonismo unilaterale ma cammino comune di cambiamento, dove la libertà ridonata può costituire occasione di scelta per il bene comune, salvaguardando, al tempo stesso, le esigenze di sicurezza sociale e la funzione risocializzante della pena. Un’analisi spassionata, dunque, ci spinge a superare una visione del carcere come scorciatoia per riparare al male con il male, per orientarci verso la frontiera di un nuovo umanesimo che ci invita a vedere, davanti alla Croce, anche le altre due croci che ci sono a fianco.

Papa Francesco ai carcerati di Velletri scriveva “Dio vi ama sempre, non importa gli errori che avete commesso”. Sono parole che accendono la speranza in chi vive un’esperienza nella quale il tempo sembra essersi fermato, il vivere è ridotto a brandelli, ogni prospettiva inesorabilmente sbarrata e senza via d’uscita. Quello che soprattutto conta è non lasciarsi imprigionare dal passato, ma rimanere aperti a possibilità di cambiamenti radicali, come affermava ancora papa Francesco: «aprite la porta del vostro cuore a Cristo, e sarà Cristo a capovolgere la vostra situazione. Con Cristo è possibile tutto ciò!».

Nel delicato rapporto tra perdono e giustizia non possiamo dimenticare l’incontro di papa Francesco con i carcerati a Ciudad de Juarez, il 17 febbraio 2016, per «celebrare il Giubileo della misericordia con voi e ricordare il cammino urgente che dobbiamo intraprendere per spezzare i circoli viziosi della violenza e della delinquenza». Sulla scorta del monito del Santo Padre è possibile prendere coscienza che, spesso, l’illegalità è il sintomo di un problema più vasto, il disadattamento sociale, e, forse, abbiamo perso diversi decenni a convincerci che tutto si sarebbe risolto isolando, separando, incarcerando, togliendoci i problemi di torno. La misericordia ci ricorda, invece, che il reinserimento non comincia tra le pareti di una prigione, ma inizia prima, ‘fuori’, attraverso le vie della città.

Il reinserimento o la riabilitazione necessitano di un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una comunità che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto l’ambito del tessuto sociale. L’impegno è quello di costruire una rete di relazioni umane in grado di generare una cultura di conoscenza, di promozione del territorio, come pure di prevenire situazioni di degrado, che finiscono per ferire e deteriorare la convivenza tra le persone. Infatti, il reinserimento nella comunità civile inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l`accesso ai servizi fondamentali, per ricordare solo alcune misure.

A partire da questa prospettiva di speranza è possibile rialzare la testa, lavorare per ottenere il desiderato spazio di libertà, consapevoli che la storia non si cambia, non si può riavvolgere la pellicola per cambiare l’epilogo del racconto. Ma questo non significa porre la pietra tombale sull’esistenza di chi ha sbagliato, dal momento che è sempre nostro impegno offrire una possibilità di riscatto soprattutto nei momenti più duri e spinosi dell’esistenza.

Scrivere per rinascere

Quando le tenebre scendono e la nebbia avvolge tempo e spazio in un tutto uniforme che stordisce e disorienta, si rivela terapeutica la comunicazione, di cui la scrittura ne è parte fondamentale, come diceva Gesualdo Bufalino: «Si scrive per guarire se stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore». Infatti, il proprio vissuto, soprattutto quando è intriso di sofferenza e striato di sangue, può diventare materia grezza da plasmare attraverso l’esercizio dello scrivere. Possono capitare momenti in cui la desolazione fa da sfondo al presente, sgualcisce le foto del passato e compromette irrimediabilmente il futuro, fino a mettere in dubbio il senso della propria esistenza. Proprio in quelle circostanze la scrittura può irrigare il deserto dell’anima, offrendo un foglio bianco su cui riversare, come in un album, non soltanto i ricordi collezionati in un passato, si spera più felice, ma anche i momenti difficili che si stanno affrontando. Descrive queste dinamiche, in modo appassionato fino a rasentare il lirismo, Beatrice Balsamo in La parola del narrare e dell’incontro: «Il raccontare di cui questo volume è costituito non è un chiacchericcio o espressione di opinioni ma una vera e propria opera di tessitura e intrecciamento alla ricerca di qualcosa che vale la pena cercare: il senso della propria vita. E il racconto non è cronaca puntigliosa del susseguirsi di eventi, ma selezione, frammenti. “Il dettaglio significante (racconto quei fatti e non altri) fa evento, convoca, è ciò che è del tutto ma che eccede dal tutto e mi convoca fuori dal tutto, dettaglio, carico di senso. Proprio quei particolari […] e non altri fondano il mio narrare, diventano, cioè, contingenza eccezionale, mi suscitano commozione e lacerazione. Ma questi fatti particolari che sono la rappresentazione della mia vita non sono mai conchiusi, rinviano sempre a un mistero, ad una attesa (costitutiva dell’incontro) e al silenzio» (pp 64-65).

Infatti, la privazione della libertà stravolge brutalmente la vita, come una tempesta, vi echeggiano tuoni fragorosi là dove prima risuonavano le risa, i lampi squarciano il cielo, abbagliano e confondono, mentre lacrime di pioggia e nubi minacciose non permettono di guardare al domani divenuto ormai un muro invalicabile.

Il racconto, fatto di parole e di immagini, di sorrisi e di lacrime, di emozioni e di sentimenti, di ribellione e di rabbia, diventa, così, un terreno su cui coltivare la comunicazione con se stessi, l’occasione per far emergere le proprie paure e, attraverso il potere catartico della narrazione, esorcizzare le sofferenze e medicare le ferite. Scrivere porta a indagare il significato di ciò che si custodisce nel cuore, fosse anche qualcosa di sconvolgente e di assurdo, leggendo e rileggendo le pagine della propria storia con occhi sempre nuovi. Nella notte della libertà negata, nell’incubo angosciante in cui l’alba di un’esistenza non più costretta entro spazi obbligati, a volte, pare proprio difficile da scorgersi, gli occhi della scrittura permettono di vedere oltre, di leggere la propria vicenda con una forza nuova, di immaginare una possibilità di riscatto.

Un altro aforisma di Bufalino mi aiuta a chiudere questa breve premessa a un testo così intenso e vibrante: “Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto”. Auguro che questo libro sia occasione di incontro e di confronto non tra sconosciuti, ma tra donne e uomini che, grazie alle storie narrate e qui raccolte, si possano conoscere e diventare amici prendendosi cura gli uni degli altri.

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