Scrivere per sentirsi liberi

Antonella Bolelli Ferrera

La prima volta che sono entrata dentro un carcere, è stato a Regina Coeli, a Roma. In quei giorni, un ospite eccellente aveva varcato i famosi “tre scalini” (secondo un’antica canzone popolare, chi non li ha mai saliti non è romano e neppure trasteverino). L’ospite eccellente era recluso in un reparto sotto stretta sorveglianza. Gli agenti avevano il compito di verificare di giorno e di notte che non compisse atti autolesionistici.
Mentre camminavo nei lunghi corridoi, freddi anche quando fuori fa caldo, cercavo di immaginare che cosa stesse facendo quel distinto signore, di certo abituato a una vita più comoda e mondana. Gli agenti, accompagnandomi davanti alla sua cella, mi hanno detto semplicemente “E’ lì” e non c’è stato verso di estorcere qualche indiscrezione.
Il blindo era socchiuso. Passandovi, ho scorto l’uomo, di schiena, seduto davanti a un piccolo tavolo. Forse era intento a scrivere. Scrivere a casa, oppure una poesia o, meno romanticamente, memorie in sua difesa, o anche memorie e basta.
Proprio in quei giorni, stavo ricevendo gli scritti dei detenuti per il concorso letterario Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere. Erano centinaia. Non tutti i partecipanti si erano attenuti alle regole del bando e inviavano romanzi-fiume, anche scritti a mano e quasi indecifrabili. Nelle lettere di accompagnamento, spiegavano persino le condizioni in cui avevano dato corpo, giorno per giorno, o di notte in notte, al loro racconto. Forse, per giustificare qualche errore di troppo, specificavano “Siamo in sette… la tv è perennemente accesa”, oppure “Ci sono tre slave in cella con me. Litigano continuamente” e ancora “Mi sfottono, perché scrivo… Sono costretto a farlo di notte, mentre quelli russano”.
Ho pensato che in fondo quel distinto signore, nella sua cella singola, era quasi un privilegiato. E mi sono detta, prendendomi una piccola libertà nella selezione degli scritti, che avrei cercato di dare spazio ai reclusi anonimi, sconosciuti al resto del mondo. Così è stato. Fra i venti racconti finalisti che compongono questa antologia, uno soltanto ha per autrice una persona venuta alla ribalta delle cronache.
Sono più uomini che donne, e forse si spiega nel fatto che la popolazione carceraria è di gran lunga più maschile che femminile. Un aspetto curioso è che sono i campani – quasi tutti napoletani – i più prolifici nella scrittura e anche quelli disposti a raccontarsi senza remora alcuna.
Ad alcuni, ho potuto dare di persona la notizia. Non dimenticherò quei momenti e quegli sguardi. Sono persone molto diverse per provenienza, estrazione ed età. Ognuno, incontrandomi nella stanzetta del colloquio e senza sapere ancora chi fossi, mi ha “accolta” con aria tra il preoccupato e il rassegnato, come di chi non è abituato a ricevere buone nuove. Alle mie prime parole “premio letterario”, hanno capito. Si sono accese luci nei loro occhi che hanno illuminato anche me, e non si trattava di tre pischelli - mi si passi il termine - alle prime armi.
Uno di loro lo avevo già conosciuto nel corso di una mia visita a Regina Coeli. Fu il caso. Mi fecero parlare con lui, perché avendo l’incarico di scrivano (colui che raccoglie e trascrive le richieste del settore in cui è detenuto), aveva più di altri la percezione del comune sentire della sua sezione. Mi disse che aveva partecipato al premio letterario Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere, che gli piaceva scrivere e leggere, che da ragazzo aveva frequentato il liceo classico, e che poi i fatti della vita... Non sapeva, ovviamente, chi fossero gli scrittori-tutor che sarebbero stati abbinati agli autori-detenuti finalisti, ma mi disse, buttandolo lì, un nome. Gli chiesi perché proprio quello e mi spiegò che sarebbe stato stimolante far elaborare il suo racconto – un racconto anche di militanza politica – proprio da chi, a livello ideologico, era stato dalla parte opposta. Bene, quello scrittore entrò davvero a far parte della rosa dei tutor, e la storia di quel detenuto è nascosta tra le venti di questa antologia. Il destino ha voluto (con rigorosa estrazione a sorte) che i loro due nomi camminassero abbinati in questa avventura letteraria.
C’è anche chi, prima dell’uscita di questo libro, ha ritrovato la libertà. Mi ha fatto piacere risentire al telefono la voce di quella ragazza appena maggiorenne che ero andata a trovare in un carcere minorile. Che il suo racconto crudo e tagliente sia per lei soltanto il primo passo verso una vita migliore.
Gli ergastolani sono invece un capitolo a parte. Per raccontare le loro vicende non basterebbe l’intera opera: traffici, rapimenti, fughe, omicidi, rapine. Alcuni hanno assunto dietro le mura dei penitenziari il ruolo di leader della protesta, ed hanno approfittato anche del loro “racconto dal carcere” per esprimere stati di sofferenza e disagio. Il pensiero del suicidio, se non ha toccato direttamente la loro volontà, lo ha fatto con altri compagni che non hanno resistito dietro le sbarre.
Ho incontrato alcuni di loro per farmi spiegare il “detto e non detto” dietro le righe. Potrei scriverci un romanzo, ma spero che presto lo facciano loro.
Ad uno ad uno, desidero conoscerli tutti, perché ho avuto la riprova che quegli scritti – quasi tutti - rappresentano anche una richiesta di aiuto.
E poi ci sono gli scrittori-tutor. Senza di loro questa esperienza non sarebbe stata possibile. Tutte persone impegnate ai massimi nella loro attività artistica e letteraria, quelle che a volte fai persino fatica ad intervistare. Ma è nei momenti speciali che riconosci le persone speciali. Dare a chi non ha anche solo un po’ del proprio tempo e del proprio sapere, vuol dire donare speranza. E per chi vive dietro a quattro mura, la speranza aiuta ad affrontare la vita.

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